Celestino Ferraresi
Celestino Ferraresi parte dalla metafisica dei manichini e delle vetrine in luce notturna per restituirci un’immagine di vita spettrale e funerea. La pittura ha corpo, è elaborata fino a fare del manichino una figura che vive e si muove. È con accanimento che Ferraresi ricrea la falsità di tutto un mondo travestito ma il “notturno” è freddo, crudele, un gioco calcolato di maschere fino all’illusione per una demolizione di miti necessaria. Veramente pregevole è l’animazione vivente, teatrale, dei volti dei manichini nella luce notturna : l’effetto è feroce, di un realismo magico e allucinato. Il manichino, che è sempre una donna, porta un’ossessiva espressione di dolore, di vittima.
Dario Micacchi ( l’Unità , 2 luglio 1976 )
——-
Celestino Ferraresi
Ferraresi ai suoi inizi ha tratto partito soprattutto dagli insegnamenti di Ziveri, del quale è stato allievo e poi assistente presso l’Accademia di Belle Arti di Roma: proviene quindi dalla “Scuola romana”, in quella particolare accezione realistica, neocourbettiana cui Ziveri, dagli anni Cinquanta a oggi, ha derivato, placandolo, il bollente fiume espressionista di Scipione e dei suoi primi compagni. Tipica del giovane ferraresi, sino a qualche tempo fa, era così una pittura soda e polposa e insieme sobria, originale soprattutto per il modo di tagliare e inquadrare scorci di paesaggi monumenti e oggetti, con un’insistenza sul particolare, spesso elevato a protagonista del quadro, di remota origine metafisica e di più prossima suggestione pop : una pittura tendente al “grandioso” , eppure antimonumentale.
Ora Ferraresi mi sembra ad una svolta estremamente significativa e interessante. L’occhio non inquadra più gli oggetti e i loro dettagli ma si cala in una acqua monettiana, sprofonda tra erbe e pesci come in una metafora dell’inconscio. E la pennellata si sfrangia, la pittura si fa liquida, fluente, con evidenti ricordi impressionisti ma anche informali: di quella versione lirica dell’informale che si riconobbe nel sommo Monet delle “Ninfee” e delle poesie di Rimbaud.
Pittura di pittura di grande qualità questa attuale di Ferraresi, sia nei quadri ad olio che nei bellissimi pastelli. Certamente un artista da tenersi d’occhio, un artista vario e vivo.
Cesare Vivaldi, 1987
——-
Il perché delle cose, il perché della pittura
Dipingere figure, cose, frammenti della natura, angoli dello studio. Per chi l’ha sempre fatto, sembra oggi difficile dire che è la via più naturale per il dipingere.
Dipingere uno spazio che è sempre lo stesso, poi, diventa il più raffinato modo per dire che la vera avventura non è il “ voyage autour de sa chambre “, ma il surplace sul conosciuto. E forse, tutto il gioco serve per arrivare al vero compito di un pittore: il sondaggio del proprio Profondo. Ma no, non si tratta di facile psicoanalisi: perché il pittore ha costruito quello spazio prima di quella pittura. Vi ha accroccato il manifesto e la gabbietta, le squadre e il manichino, lo specchio e il calco antico: le cose che tra l’altro, sono appartenute al precedente trasloco ( quello del suo maestro Ziveri ) vengono accorpate nello specchio prismatico del minuscolo atelier. Celestino si è creato una tana, prima di fare pittura.
Ed eccola quella pittura. La modella poggiata al tavolo, ambigua e spatolata di eros. Lui stesso al cavalletto che copia se stesso. Le cose della natura sorvolate da un pennello carezzante. Tutto è normale, tutto è quotidiano. E tutto, per via di pittura, tocca l’enigma della metafisica.
Un esempio. Il Nudo sdraiato di spalle è un quadro doppio. Da una parte, le presenze ( il cappello fiorato e la bella schiena, il lenzuolo sfatto e la sedia da cucina ) possono evocare un quadro di un secolo fa. Dall’altra parte, l’accostamento è ormai un montaggio: nel piccolo spazio, la luce inventata accosta le diverse presenze come in una composizione astratta. Non c’è niente di più surreale della realtà, diceva il Grande Metafisico, a patto che lo si guardi nei suoi dettagli più silenziosi. Sempre il microcosmo allude al macrocosmo, ammesso che sia oggettivato in pittura….
“Scoprire la realtà, accettare la realtà, impegnandosi a non modificare la realtà. E nei confini della realtà trovare ancora da illudersi, da sognare” . così parlò Mario Mafai (finito, non a caso, astratto). Un giovane dell’88 parla ancora di realismo: un tema che sembra oggi più aperto che mai, sia pure con un rinnovato metodo (schizoide).
E nella tenzone quotidiana, discreta o affannata, con il modello o con la cosa, Celestino conferma che si continuerà a domandarsi il perché delle cose finché queste ci saranno, e si continuerà a fare pittura finché ci si domanderà il perché delle cose….
Maurizio Fagiolo Dell’Arco, 1988
——-
Roma, 15 giugno 1988
Caro Ferraresi,
“ Tra le passioni ce ne sono alcune, per così dire, del tutto corporee: l’amore, la fame, la sete, il sonno, la collera, l’orgoglio, l’invidia”. Così Erasmo da Rotterdam ( Elogio della Follia ) ; ma dimenticava – o forse la immaginava passione dell’anima – quella che tutte le riassume : la pittura .
Alle passioni “ corporee “ pensavo, appunto, guardando i tuoi quadri, così godibili nella materia, così ghiottamente farciti di evanescenze , di citazioni colte, di luminosi struggimenti.
Mi scuserai il linguaggio in qualche modo “gastronomico “. Ma non è vero che certa pittura par di sentirla col palato ? E non sa d’uva passa, di vino vecchio, la materia di Tiziano ottantenne ?
Sta di fatto che la tua pennellata brucia allegramente le tematiche e le problematiche, il racconto e il giudizio, l’après- nature e l’etica del reale. Nelle ceneri calde dei soggetti a modino – ritratto, paesaggio, natura morta – resta la luminescenza della tua ispirazione ( ed unica, vera aspirazione ) : tessere la stoffa sontuosa dei toni filo per filo, essere corpo con tutto il corpo dell’immagine .
Pensavo anche, guardando le tue tele , se ancora resta in circolazione qualcuno capace di leggerle per quello che realmente sono : cultura come abbandono erotico , “ libertinaggio “ delegato alla castità della materia. Ci credo poco. Sai quanto me che il pubblico e la critica si sono rovinati il palato stando a cena con gli esibizionisti della peggiore risma.
Buona fortuna, comunque, e che tu possa continuare, malgrado tutto e tutti, sempre con lo stesso incanto e con lo stesso rigore.
Renzo Vespignani, 1988
——-
Celestino Ferraresi
Il piccolo studio di Celestino Ferraresi ad un ultimo piano nella Roma vecchia e storica, proprio alle spalle della splendida tenzone – divenuta tosto aneddoto popolare – tra Borromini e il Bernini di Piazza Navona, suggerisce d’acchito impressione di soffocamento. Vi si giunge per una scala larga, come si addice a quegli antichi edifici, ma erta, e la più lontana da ogni ipotesi d’ascensore; è costituito dagli ambienti canonici, due, l’uno ingresso, deposito, spogliatoio e quant’altro, il secondo studio propriamente detto, col cavalletto al centro, il lucernaio al giusto posto e la luce che piove sul quadro eliminando i riflessi. Perfetto, ma in miniatura. E a chi non è abituato par d’essere rinserrato in uno spazio senza varchi, suggestivo ma impraticabile quell’unico alto occhio di cielo: proprio come commentano i due diamantini cinguettanti nella filiforme prigione tante volte rappresentata.
La premessa muove alla lontana ma non è peregrina come sembra, soprattutto oggi che Celestino – per quanto ancora, non sappiamo – ha sospeso di aggirarsi nella città piantando il cavalletto per le strade o sulle sponde del Tevere. Quel piccolo atelier è ora tutto il suo spazio. Quotidianamente, lasciando le affollate aule dell’Accademia dove insegna, egli percorre via di Ripetta, la piazzetta di Sant’Agostino, ed è da credere che ogni volta carezzi con lo sguardo la scalinata della chiesa, la non agile facciata quattrocentesca, e col pensiero riveda la piccola cappella invasa da quel Caravaggio che, continuiamo a credere, ogni volta gli rinnova intimorita suggestione. Ed è a via dell’Anima, Celestino, su per l’erta scala, nelle sue stanzette dove fedeli lo attendono gli interlocutori di ogni giorno, silenti e immobili. Il divano, il tavolino tondo, la gabbietta con i bianchi esserini ora compiaciuti e quieti ora frementi, la testa mozza del manichino, barattoli a profusione e pennelli e colori, e il cestello di vimini ove la frutta dura in partecipe solidarietà. E tant’altro, sì che par di entrare in un angolo vivo di quel capace laboratorio in cui nacque tanta pittura romana degli anni trenta e quaranta: Mafai, Pirandello,Capogrossi, Trombadori, Francalancia, Guzzi, Cevalli…..ma soprattutto Ziveri. E non a caso. Perché con Ziveri Ferraresi a suo tempo ha studiato restando tra gli allievi prediletti. A suo tempo; si che è cresciuto, l’allievo di allora, in piena autonomia i libertà, ma su quell’avvio e quelle basi solide. E di quella impostazione non poco si riconosce: un senso e un gusto della realtà nello sua consistenza umile, come di parlata popolare, ma schietta e sana, e tanto più quanto più sono viste appunto nella dimensione terrena, quotidiana e persino dialettale. Ma né Ziveri né Ferraresi coltivano il popolaresco; il più anziano mantiene una luce che in quegli anni lontani si faceva a volte accesa e visionaria, ovvero, secondo la temperie, tratteneva l’eco metafisica e non di rado, nel tempo, ha scelto il versante magico e sublime. Il più giovane – ed è qui soprattutto la diversità e l’indipendenza – sente la suggestione e la tentazione esistenziale.
È alla luce di quest’ultima considerazione che i soggetti rappresentati vanno visti insieme alla scelta linguistica. Per paradossale che possa parere – su una pittura che in qualche misura ricorda la citata area romana e che sembra percorrere sentimenti intimisti – non è irrilevante che gli artisti di quell’area operassero al di là e Ferraresi al di qua dello spartiacque informale. Non sul piano del linguaggio ma su quello dello spirito che lo nutre: accentua, qui, una psicologia che par voglia sprofondare in se stessa. Quel ridotto perimetro eletto a racchiudere il mondo, quanto lo riduce orizzontalmente tanto lo approfondisce, lo incupisce, lo macera, pure nell’apparenza di dimessa e affettuosa quotidianità. Dai fiori alla frutta, a tutti gli oggetti che popolano lo studio e si fanno protagonisti dell’immagine, vive ciascuno non la serenità della giornata operosa o il calore dell’intimità, quanto piuttosto una sorta di desolata tristezza, di solitudine, di stanca, usurata, inappagata ripetizione; non la grazia ma la noia della modella in posa (non Renoir, per citare l’animo se non il linguaggio di modelli illustri, ma i lancinanti precorrimenti esistenziali di Degas) ; così ancora, poi che l’artista sembra volerlo adombrare, non l’umoroso e vitale seicento olandese – valga il celebre cardellino di Fabritius oppure, ed è punto significativo di riferimento, gli autoritratti rembrandtiani – ma il suo lato più, appunto, esistenzialmente compromesso: come, per restare ai grandi prototipi, il Rembrandt di tanti disegni e incisioni.
Questa ascendenza olandese e seicentesca, al di là di quella novecentesca romana, è dichiarata soprattutto negli autoritratti, tra i punti di forza di questa mostra. Ferraresi vi scopre le corde drammatiche sotto la patina umile, vi registra l’allarme e lo sgomento. Ed è facile passare dall’iconografia allo stile. Non soltanto il sorriso è sostituito dalla pensosità, se non dall’inquietudine, ma la stessa consistenza fisica di persone e cose smarrisce ora più ora meno l’oggettività, la stesura si sfalda, la pennellata in luogo di costruire sfibra, i contorni tremolanti non giustappongono piano a piano ma compromettono l’uno con l’altro, in uno spazio che ne soffre e vi s’invischia.
Le riprese seicentesche oggi non sono rare; in tutt’altri termini che nelle note dispute degli anni venti, piuttosto con l’accentuazione vuoi dell’apparato meramente accademico vuoi di quello ottico, essenzialmente fotografico. La partenza ziveriana trae Ferraresi da questi rischi e lo restituisce alla pittura, ma la sua rotta è diversa da quella del maestro. In quei tempi andati le possibilità erano chiare, ciascuno militava per sè ma ci si avvicinava e i fronti si allargavano. Oggi non più. Esistono scuderie, mode, mercato; ma chi incalza la verità, chi nella pittura si interroga, cerca un senso di se e del mondo, ascolta nel silenzio – ed è questo il rovello di Ferraresi – , allora è solo: come questo teso “ Giovane pittore “ in cui l’artista oltre il soggetto suggerisce, pungente, inquieto, un diverso autoritratto. Il cammino di Ferraresi è aperto e lungo, ma la sua maturità è già raggiunta.
Guido Giuffrè, 1989
——-
Un personaggio misterioso : il silenzio
La pittura di Celestino Ferraresi nasce da un robusto ceppo di esperienze figurative, che raccoglie, come nodi di una stessa pianta, la densità materica del suo maestro Alberto Ziveri, la trama esistenziale delle nature morte di Mafai, un amore per la sintesi compositiva e per uno spazio intensamente vissuto che può a tratti ricordare Morandi, una ricerca di nuda oggettività che rimanda a certe “atmosfere in tensione” del Realismo magico.
Detto questo non vorrei far pensare a questa pittura come a un raffinato centone di esperienze già compiute e assorbite dal nostro orizzonte visivo, e neppure a una manieristica rivisitazione della migliore pittura italiana della prima metà del secolo: in questi dipinti sobri e scattanti c’è molto di più. La grande gioia che provocano derivano dal loro essere, così come voleva Delacroix, “prima di tutto una festa per gli occhi”. Ovvero nulla di più nulla di meno che bella pittura.
Nel suo studio di via dell’Anima, Celestino mi mostra una lettera scrittagli tempo fa da uno degli artisti che più amo, Renzo Vespignani. In quella lettera è contenuta una sfida: esiste ancora qualcuno in grado di capire la pittura per quello che è ? Di più: esiste ancora qualcuno in grado di usare i propri sensi, di godere della pittura ? e sì, perché la vera pittura raccoglie e assorbe il succo dell’esistenza, i suoi umori, sapori, odori, suoni e veleni. Non è un gioco, è una esperienza forte.
È vero che oggi ad accettare la sfida della pittura sono rimaste poche persone. Forse non erano tante neppure ai tempi di Caravaggio, ma oggi sono ancora di meno, per una semplice ragione: la pittura richiede, per essere amata e capita, uno dei beni oggi più rari e preziosi: il tempo.
Se si trattasse solo di un problema di immagine sarebbe tutto più facile: siamo tutti bravissimi a captare immagini. Basta un attimo e l’immagine è nella nostra mente, confusa in quell’immenso, succulento quanto indigesto fritto misto che accomuna Botticelli e Claudia Schiffer, le nuvole barocche e il Caffè Lavazza. Ma la pittura non è solo immagine, è anche e soprattutto materia, e la materia trattiene e condensa il gesto e l’energia di una mano e di un cuore; la pittura è luce, nella quale è nata e quella che trasmette nelle sue vibrazioni e nei suoi impasti; la pittura è spazio, e lo spazio dialoga con il nostro e lo condiziona.
Un buon quadro non smette mai di trasformare la nostra percezione delle cose e del mondo. Può essere discreto o aggressivo, fulminarci con la sua crudezza o entrare nella nostra anima come un soffio d’aria pulita in una stanza chiusa da settimane. Può essere un caro amico o un nemico: in ogni caso non dovremmo mai chiedergli cosa rappresenta, semmai cosa vuole da noi…
Eccoci dunque davanti ai quadri di questa mostra: una trentina di opere dipinte negli ultimi quattro o cinque anni da un artista che ha già alle spalle un lungo percorso. Gli oggetti che entrano nei suoi dipinti sono pochi e scelti con cura: drappi e stracci coloratissimi, qualche semplice mobile, la gabbietta con (o senza) i pappagallini, le melagrane, una riproduzione a colori, fiori e rami secchi, il cavalletto, lo specchio, il muro bianco.
Nello studio la luce cade dall’alto, si rivela in pieno su tutte le superfici orizzontali e si decanta in mille possibili variazioni sulle altre. Questa condizione permette all’artista di seguire le infinite avventure della luce su quel muro bianco, che negli ultimi anni sembra voler diventare il protagonista assoluto, accoglie talvolta solo un esile filo, o un rametto contorto.
Quel muro bianco può essere una delle possibili porte per avvicinarci un po’ di più a questa pittura. Intanto definirlo “bianco” è già un errore, tanto è intimamente permeato di riflessi e riverberi, risolto in sontuose risonanze e tessiture di segni, che di volta in volta lo rendono calcinoso, morbido e splendente. Guardando a lungo questi muri potremmo ritrovarci a parlare come gli eschimesi, che per definire il “bianco” usano fino a dieci parole diverse.
Il segreto di tanta semplice ricchezza è anche nella materia che l’artista si è scelta, non la pittura ad olio, ma l’antica emulsione di terre uovo e olio di lino. Una materia più parsimoniosa nel rivelare le sue qualità di luce, ma infinitamente più evocativa. Una materia asciutta e “croccante” che ci porta alla mente gli affreschi del Quattrocento, ma anche le strade bianche dell’infanzia, i vecchi intonaci calcinati dalla luce estiva, la luce di certe mattine in cui il mondo sembra più pulito.
Basta quel semplice muro a creare la scenografia delle mirabili apparizioni che il pittore di volta in volta ci propone. Tanto più mirabili in quanto la valenza simbolica di cui ognuna di esse non faticherebbe a caricarsi, è invece annullata e riassorbita nella loro semplice qualità di cose dipinte: un calendario dell’Alitalia con la riproduzione di un dipinto antico e tre rose a testa in giù. Quanti bei discorsi si potrebbero fare, chiamare in ballo il Tempo, e la Memoria, la perduta Aura e la Riproducibilità dell’opera d’arte, la Buonanima di nonno Mafai e via di questo passo…..
Non mi interessa. Gli ultimi venti anni ci hanno portato in dote vagonate intere di orribili quadri, “pompati” da mirabolanti (quanto illeggibili) letture critiche. Le parole e le definizioni, da semplici strumenti al servizio della pittura, hanno finito per condizionare pesantemente la lettura e la funzione di questa semplice e difficilissima arte che gli antichi definivano, a ragione “muta poesis” .
Penso sia ora di ridare spazio e dignità al lavoro degli artisti e di incoraggiare, semmai, la capacità di contemplazione, l’autonomia di giudizio e l’amore per quel misterioso personaggio che abita da sempre nei buoni quadri: il Silenzio.
Valerio Rivosecchi, 1996
——-
Celestino Ferraresi e l’apoteosi dell’effimero
Nel 1938 Sartre scrive La Nausea, un romanzo filosofico il cui scopo è quello di confutare tutte le metafisiche dall’eleatismo in poi. Il protagonista dell’opera fa l’esperienza dell’assoluto, e questo, terribilmente, si presenta sotto le vesti dell’assurdo; ora l’assurdo è che il mondo delle spiegazioni non è quello dell’esistenza. L’assoluto così è la contingenza, l’effimero; l’esistenza non è necessaria; gli enti appaiono senza ragione, si lasciano incontrare, muoiono, ma non li si può mai dedurre perché sono privi di fondamento ontologico. Ora il testo sartriano rappresenta un grimaldello capace di spalancarci le porte dell’universo pittorico di Celestino Ferraresi. Di che ci parla l’artista ? ci parla unicamente di enti, siano essi le cose o l’uomo; prima di proseguire sgombriamo però il terreno da un errore che uno sguardo epidermico potrebbe compiere, l’errore di accostare Ferraresi a Giorgio Morandi. La pittura di Celestino Ferraresi costituisce l’antipodo esatto di quella del “maestro delle bottiglie”; Morandi rimane per tutta la vita un metafisico, cioè un “frequentatore dell’inesistente”;il nostro, al contrario, parla solo ed unicamente di esistenti colti nella loro irrimediabile fragilità . non a caso, infatti,lavora avendo sempre sottomano il mondo. Conseguentemente non si debbono leggere i fondi astratti delle sue nature morte come certificati di de realizzazione. I fondi astratti altro non sono se non il “solido nulla” (per dirla con Leopardi) da cui tutto esce e a cui tutto ritorna. Insistiamo, di che parla Ferraresi? Parla delle esistenze che stanno lì, che mostrano la loro carne e la loro vita che è preziosa per il semplice motivo che è del tutto friabile. Ora, essere contingenti significa trovarsi gettati nel mondo senza preventiva consultazione; si spiega quindi perfettamente la predisposizione dell’artista per le “nature morte”; queste gli permettono, lo ripetiamo, di esibire gli enti, e di porre continuamente il grande problema del loro non essere l’Essere. Ecco dunque, in un piccolo quadro, dei burattini abbandonati; anche quando parla di frutta, di libri, di matite, le cose, se guardiamo bene, siamo noi. Le rose appese siamo noi “impiccati”al posto nel quale ci inchioda la necessità della nostra contingenza; Celestino poi non si ferma alla mera individualità. È la storia stessa che si fa natura morta; in un altro quadro, infatti, un piccolo angelo dorato, che è appena caduto da un cielo barocco, si accompagna ad una copia di Raffaello. Ora, tutto quello che il nostro “racconta”, viene tessuto da una pittura ricca, densa, calda, sedotta permanentemente dalle luci e dalle ombre. Dunque in polemica puntuale e puntuta con il prosciugamento dell’arte (sadicamente e calvinisticamente) praticato dalle neoavanguardie, il pittore ostenta spudoratamente il corpo della pittura, un corpo certo del proprio “diritto alla vita”e alla sopravvivenza. Detto questo, non è affatto errato definire anacronistica la scelta del nostro; ci troviamo però dinanzi ad una versione calda dell’anacronismo. Ovviamente, non potrebbe che essere così dato che il pittore dimostra assai bene che deriva dalla nostra condizione il fatto di essere al mondo come corpi. Questi corpi possono senz’altro essere feriti e offesi, ma possono anche avere la fortuna di incontrare la ricerca di Celestino Ferraresi e trovare così la loro verità all’interno della tessitura magata e fraudolenta dell’arte.
Roberto Maria Siena, 2002